La musica in Casa Verdi

La prima impressione che colpisce. entrando a Casa Verdi, non è l’ordinamento della vita. È il suono. Arriva da lontano e da vicino musica: suoni di pianoforte, di violino, a volte d’organo; c’è spesso qualche voce giovane che ripassa o studia qualche aria d’opera. E può persino capitare di udirne di non più giovani che si ripassano qualche romanza.

Camminando si incontrano gli strumenti: i pianoforti a coda o a mezza coda, il grande organo nel salone dei concerti. Vi sono infatti gli strumenti che permettono ai musicisti di continuare il loro rapporto attivo con la musica. Quale rapporto! È una realtà non confidatile, recondita, che a volte certe fotografie riescono a spiare. Negli sguardi, nelle mani, in una certa sospensione di tutta la figura protesa, si rivela in barlume il rapporto unico dell’età e forse anche della condizione di questi artisti. C’è la memoria di quanto ciò che stanno suonando ha significato, accompagnando la loro vita: un ricercarsi, un ritrovarsi. Talora la musica si manifesta in loro con una specie di ebbrezza antica, che godono golosamente. C’è una gran voglia di comunicare: la musica tende sempre a darsi. Non si può misurare, ma il pudore della violinista e l’espansione affettuosa della pianista che suonano insieme in una di queste fotografie ci fan venire una gran voglia di ascoltarle...

In altre immagini, c’è anche qualche cosa di più radicale. C’è l’attesa del suono rievocato come in un rito magico o in una seduta di autocoscienza; anzi, più in là di tutto questo, come un rapporto decisivo che si debba compiere. L’accordatore che dispone con una pignoleria doverosamente maniacale ogni condizione perché lo strumento risponda a ogni sollecitazione; c’è l’organista che attende, sospesa e quasi atterrita, l’istante in cui tutto ciò che è stato la sua vita ordinata nella fantasia musicale torni a manifestarsi. Questa libera vicinanza alla musica, questo sentirla alle radici, non più in funzione a un concerto o di una perfezione esecutiva, ma come pura attesa di rivelazioni personali, come pura esperienza di sentirsi vivi con pienezza sembra quasi contrastare con il carattere e le abitudini di Verdi, così esigente, draconiano, crudele nei confronti dei suoi esecutori.

Qui è come approdato a qualcosa di più importante delle valutazioni e delle distinzioni, è come se la celebrazione del far musica lo spingesse verso il fondo della sua verità, senza gradualità di privilegi e di importanze. Viene in mente che Verdi, per l’insofferenza alle celebrazioni personali, per idiosincrasia verso i pettegolezzi, insomma nel suo stile, volle che la Casa di Riposo fosse inaugurata dopo la sua morte. Viene quasi da associare questa disposizione con l’atteggiamento del Maestro che qui sembra pensare postumo, da morto, laddove le distinzioni di merito sono tutt’altra cosa e chi muore lascia a chi resta il dubbio compito di continuare ad azzardare giudizi storici, così precari e limitati. La musica è altro, è oltre. Vidi una volta, a una prova proprio della Messa da Requiem di Verdi eseguita da un volenterosissimo coro e da un’orchestra appassionata, un vecchino e una vecchina, seduti vicini, che per tutto il tempo si tennero per mano.